Fotografo la bottiglia di «Castello» stappata da un bel po’, ormai in tarda serata, poggiandola sul parapetto che dà le spalle alla maestosa cupola della Chiesa dell’Immacolata.

L’etichetta, che mostra le isoipse del cono vulcanico che poi divenne l’insula minor, il Castello Aragonese, è come una mappa dell’escalation di fascinazione pura che m’avvolge ora, a inizio settembre.

Castello unoCondivido emozioni alla tavola della «Cucina del Monastero», ristorante dell’anima da sempre, da quando ha rivitalizzato la terrazza alta, a Ponente, ispirandosi alla storia della roccaforte abitata da contadini e pescatori, nobilissimi spiriti al pari dei grandi che qui hanno trascorso brani della propria esistenza, nell’arco di un paio di millenni, alimentandosi di Natura. Ma del cibo e dei sapori, poi parlerò.

castello.vino3Ora m’entusiasma un pensiero. Lo scoglio monumentale è apparentemente una germinazione di Ischia ma, a differenza dell’isola maggiore sfibrata dai soliti destini/intestini dell’estate, qui cresce in modo esclusivo e unico, e si moltiplica una vocazione secolare: la coltivazione della Cultura e della Vite. Che è poi la stessa cosa, intesa alla cima delle curve di livello, per restare in metafora grafica e geografica. Per farla breve, certifica che sto bevendo «Conoscenza & Memoria».
Roba forte. «Castello» è il vino Biancolella Doc firmato da Andrea D’Ambra per Nicola Mattera che, con la famiglia, ha raccolto il testimone esemplare di Gabriele, artista e nume tutelare di un nucleo che non ha mai smesso di credere nell’amore per un luogo speciale da preservare e valorizzare con ogni forza.

La vigna è un cru «terramare», è stata riconquistata alle more selvatiche d’antan, a ridosso dell’orto conventuale e delle mura maestose che l’includevano. È un tesoretto microclimatico che domina a sud-est la cala di Cartaromana, in un sorvolo di gabbiani e uccelli di passo che strizzano l’occhio ai grappoli: a volte, e a volte un po’ troppo, li pizzicano in un battito d’ali.
L’annata di «Castello» che ho nel bicchiere è già mitica: vendemmia 2018. Dopo la mia, ne restano appena 40 bottiglie in cantina. L’idea del lungo affinamento in vetro mi regala immediatamente una gioia: il colore giallo è consapevole della propria maturità. È un lampo che illumina la notte e le vaghe stelle da luna piena. Al naso, ecco le briciole pozzolaniche umide e la florealità che stuzzicano l’immaginazione, tra acidità e freschezza e bevibilità annunciate, che la bocca conferma: fiori di cappero, erba, e poi percoca in finezza, con una persistenza che interpreta al meglio la resilienza del progetto enoico. Toda joia toda beleza…

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