Erano trascorsi appena sessant’anni dalla morte di San Francesco d’Assisi, quando i suoi frati edificarono uno dei loro primi monasteri nel borgo della valle del Sele che allora era chiamato Evoli, l’attuale Eboli.

Il complesso monastico del 1286 conobbe varie vicissitudini nei secoli successivi, comprese diverse ristrutturazioni e trasformazioni stilistiche, conservando però la sua funzione originaria fino alla soppressione degli ordini religiosi del 7 agosto 1806, in piena epoca napoleonica. Qualche anno dopo, infatti, fu riconvertito in sede del Municipio ed edificio scolastico. Poi arrivò la distruzione della guerra nel 1943, seguita da un lungo periodo di abbandono superato solo nel 1993, quando un completo restauro ne recuperò tutto il valore storico-architettonico. Nell’ala occidentale, dal 25 marzo 2000, è ospitato il ManES, il Museo Archeologico Nazionale dedicato agli antichi popoli stanziati nella Media Valle del Sele.

Subito dopo l’ingresso dal bel chiostro duecentesco, si incontra nell’atrio del museo il reperto più famoso, la Stele Eburina del II secolo d.C., ovvero il piedistallo in pietra della statua scomparsa del console Tito Flavio Silvano. La stele fu inglobata per secoli nel campanile della chiesa di Santa Maria ad Intra, dove rimase pressochè ignorata la sua lunga iscrizione, che cominciò ad essere oggetto di studi e interpretazioni solo dal 1823. Decisiva è stata l’interpretazione del grande Theodor Mommsen, da cui si evince che la romana Eburum nel 183 d.C. era municipium romano.

Il percorso museale fa luce sulla storia del territorio di Eboli e della valle del Sele dalla Preistoria. Le prime testimonianze della presenza umana nell’area risalgono al periodo tra il Neolitico superiore e inferiore, dunque tra 3500 e 2500 anni fa, e consistono i reperti ceramici provenienti dal sito di San Cataldo e riconducibili alla facies di Serra d’Alto e a quella di Diana-Bellavista. All’Eneolitico nel III millennio appartengono le tombe della necropoli della Madonna della Catena, testimonianze della cosiddetta “cultura del Gaudo”, dall’omonimo sito vicino Paestum, dove si trova la più antica necropoli contraddistinta da quella specifica modalità di sepoltura. All’Età del Bronzo tra il XIV e il XII a.C. appartengono le presenze nelle località Padula e Turmine, legate alla transumanza stagionale del bestiame, mentre alla fase più ravvicinata tra il XII e l’XI secolo risalgono reperti dell’insediamento più antico sull’altura di Montedoro, alle spalle dell’attuale Eboli, tra i quali frammenti ceramici di provenienza micenea, che raccontano contatti e scambi con le culture del Mediterraneo orientale.

Della prima metà dell’VIII a.C., nell’Età del Ferro, sono le caratteristiche “tombe a fossa” delle necropoli di San Cataldo, via Matteo Ripa e Oliveto Citra dai ricchi corredi, alcuni dei quali sono esposti nel museo: le tombe maschili hanno restituito armi, mentre le femminili pregevoli gioielli, oltre a materiali ceramici di varie provenienze.

L’allestimento delle sale al primo piano inizia nella sequenza cronologica dalla fine del VII a.C., ovvero l’età arcaica del sito ebolitano, con reperti dai corredi funerari delle necropoli. Particolarmente significativa è la diffusione di vasi in bucchero di fattura etrusco-campana prevalenti rispetto agli oggetti di produzione greca, sebbene le iscrizioni con i nomi dei defunti siano tutte in etrusco. Le sepolture della parte finale del V a.C. hanno restituito vasi dipinti, tra cui una coppa attica di notevole valore artistico. Durante il IV e III a.C. le modalità di sepoltura nelle necropoli di Eboli si adeguano agli usi dei Sanniti e dei Lucani, ormai presenti in tutta l’area: nelle sepolture maschili si trovano armature complete, gioielli e vasi in quelle femminili. Oltre ai reperti del territorio di Eboli, non mancano importanti testimonianze da Oliveto Citra, riferibili all’omonima cultura delle tombe a fossa.