Una scoperta casuale, come la maggior parte di quelle che fin dal Settecento hanno restituito i tesori archeologici all’ombra del Vesuvio.

unescoFu durante lo scavo di un cunicolo, nei pressi del canale Conte di Sarno, che vennero individuate tracce inconfondibili dell’esistenza di una villa. E così dal centro della moderna Torre Annunziata tornò bruscamente all’attenzione del mondo Oplontis, una frazione – potremmo definirla oggi – della città di Pompei. Segnalata, peraltro, nella Tabula Peutingeriana (la famosa copia medievale di una mappa romana delle vie imperiali) tra Pompei e Ercolano. Avviati gli scavi, furono presto abbandonati, per poi essere ripresi nella seconda metà del secolo scorso. Quando emersero le testimonianze che compongono l’attuale sito archeologico di Oplontis: la Villa di Poppea, l’unica visitabile, nota anche come Villa A, per distinguerla dalla Villa B e i resti di una struttura termale del 64 d.C., attribuita in seguito dall’archeologo Amedeo Maiuri alla villa di Marco Crasso Frugi, che nel 1831 furono inglobati dal generale Vito Nunziante nelle Terme Vesuviane da lui fondate e ancora attive.

La Villa di Poppea già Villa A

Quando, in quella disgraziata giornata del 79 d.C., iniziò la pioggia di ceneri e lapilli dal Vesuvio in eruzione, nella Villa di Poppea non c’era nessuno. E mobili e oggetti erano ammassati in una parte dell’enorme abitazione. Questo particolare e la presenza di grossi quantitativi di materiali edili hanno fatto ipotizzare che fossero in corso dei lavori di restauro, conseguenti, come per altri numerosi edifici nell’area pompeiana, ai danni provocati dai violenti terremoti che avevano preceduto l’eruzione o che si stesse procedendo a un cambio di proprietà. All’inizio dello scavo, la struttura fu definita genericamente Villa A, ma poi il ritrovamento su un’anfora della casa di un’iscrizione con il nome di Poppea Sabina, unitamente alla maestosità degli ambienti e alla fastosità degli arredi, ha portato all’identificazione con la villa della seconda moglie di Nerone. Probabilmente la costruzione, edificata nella seconda metà del I secolo a.C. e ampliata in Età Claudia con la costruzione dell’enorme piscina lunga ben 61 metri e larga 17, apparteneva al patrimonio della famiglia imperiale.

Si trattava di una villa d’otium, dunque di villeggiatura, di enormi dimensioni, finemente e riccamente abbellita. Riportata per la gran parte alla luce nel 1964, la villa si sviluppa sull’asse est/ovest con accesso principale da un ingresso affacciato sui terreni coltivati, i vigneti e le colline circostanti. Dall’atrio tuscanico con un grande impluvium si accede alle sale di rappresentanza della casa, con il pavimento in mosaico bianco e nero e le pareti affrescate con motivi architettonici, che creano giochi prospettici continui con le colonne e le porte reali. E poi una profusione di raffinati motivi naturalistici insieme a temi mitici nel I stile pompeiano. Il salone affrescato e adorno di marmi policromi, affaccia sul giardino e in particolare sulla grande piscina. Dotata di ben due peristili, la casa conta anche numerosi cubicula, le stanze da letto, anche per gli ospiti. E poi la cucina, il reparto delle terme e le latrine, dotati di acqua corrente di origine sorgiva, a confermare la ricchezza dei proprietari e il lusso dell’abitazione. Che aveva anche alcune caratteristiche tipiche delle ville rustiche tipiche delle zone agricole, come i locali per la pigiatura dell’uva e la produzione di vino. E infatti, a sud del quartiere della piscina, sono stati trovati i resti di un locale con un torchio, che indicano come il complesso residenziale avesse inglobato anche una struttura produttiva preesistente. Invece, sul lato opposto della villa, le sale di soggiorno e i rigogliosi giardini guardavano il magnifico panorama del golfo.  A sua volta, la villa con i suoi spazi verdi era ben visibile anche dal mare e partecipava all’armonia complessiva del paesaggio, dominato dalla sagoma del vecchio vulcano Somma.

L’edificio, nella sua versione ampliata e rinnovata intorno alla grande piscina centrale, contava anche dei piccoli giardini interni, fruibili in inverno come ideali rifugi per la meditazione e il riposo. Proprio la Villa di Poppea, tra le tante dell’area vesuviana, ha offerto la possibilità di ricostruire precisamente le caratteristiche di questi spazi verdi, molto apprezzati dagli aristocratici romani. E gli studi paleobotanici hanno consentito di ricostruire fedelmente la mappa delle essenze che caratterizzavano i giardini: siepi di bosso, oleandri, limoni, platani, olivi, cipressi, edere rampicanti e rose si accompagnavano, esaltandone la bellezza, alle decorazioni scultoree e alle numerose statue.

Il Museo diffuso permanente nella Villa 

Era soprattutto nell’area intorno alla piscina, tra la vegetazione del giardino, che erano collocate molte delle sculture marmoree, copie di originali greci, inserite ad abbellimento della villa. Trasferite in passato a Pompei, nei depositi del Parco archeologico, o in parte esposte presso il Palazzo Criscuolo di Torre Annunziata, quindici di quelle statue sono state recentemente riportate nella villa e ricollocate in modo da esaltarne il valore intrinseco e la perfetta integrazione negli ambienti originari. A cominciare dal grande cratere di marmo pentelico a bassorilievi che apre l’affascinante percorso, per proseguire con l’alata Nike acefala, l’Artemide e l’Efebo, il busto di Eracle, il Bambino con l’oca, una pregevole testa di Afrodite, vari ritratti di bambini, i Centauri e il gruppo del Satiro con Ermafrodito.  

Così, la Villa A di Oplontis è diventata parte integrante e qualificante di un Museo diffuso permanente, che propone ai visitatori l’aspetto più vicino a quello originario dell’edificio e delle sue pertinenze, regalando loro un percorso emozionale in grado di rendere impedibile la tappa dell’itinerario vesuviano corrispondente alla più nota villa dell’antica Oplontis.

La Villa B

Era proprio una villa rustica, invece, la seconda ritornata alla luce nel 1974 ad Oplontis, la “B” di Lucius Crassius Tertius, che non è aperta al pubblico. Il ritrovamento di un gran numero di anfore accatastate, di pesi e di suppellettili ha fatto ipotizzare che la struttura fosse in parte utilizzata come deposito e adibita alla trasformazione dei prodotti agricoli del luogo, mentre gli altri ambienti, tutti affrescati, dove sono stati rinvenuti gioielli e monete d’oro e d’argento, dovevano essere l’abitazione del dominus, Lucius appunto. Al contrario della villa di Poppea, nella villa vicina l’eruzione provocò ben 54 vittime, che forse si erano rifugiate lì pensando di mettersi al sicuro dall’inferno di fuoco riversato dal Vesuvio sulla città in quel drammatico giorno dell’estate del 79 d.C.