Mettiamola così, per cominciare: «La donna è un’isola». È una affermazione apodittica ed è il titolo in italiano di un bel lavoro, originale e a tratti bizzarro della scrittrice islandese Auður Ava Ólafsdóttir, una… isolana molto apprezzata tra Francia e Canada.

procida blogQuesto libro uscito tra i ghiacci nel 2004 racconta di un viaggio lungo la Statale Numero Uno dalla capitale Reykjavík verso la costa e si chiude con  «47 ricette per mariti, bambini e amanti e una scheda per fare le calze di lana ai ferri». Nel mezzo delle pagine c’è la vincita a una lotteria: il premio è una casa di legno prefabbricata che la protagonista potrà sistemare dove desidera… Davvero forte. Sfizioso. Un libro ricco di metafore.

Mi è utile per passare all’argomento che mi sta a cuore, senza sventagliare troppe citazioni sulla straripante e millenaria letteratura dell’insularità. Così, affidandomi a uno spezzone di sillogismo e alle proprietà riflessive della fantasia, per quanto mi riguarda posso rinnovare l’allure, la tentazione antica, e dire che «L’isola è una donna».

E Procida, che è al clou del focus attuale, lo è un poco in più di ogni altra isola, con buona pace di John Donne (ah!), il poeta londinese del celebre «No man is an Iland»

Perché Procida? Forse «perché sono così poco ischitano», parafrasando il titolo di un saggio di Jacques Bouveresse, grande filosofo francese del linguaggio scomparso l’altro giorno. Mi smarco dalla geografia per godermi la voglia di quest’incursione passionale nelle Everglades della procidanità che sta assurgendo a nuovo Mito dal 18 gennaio scorso.

Sono curioso e dispettoso. Può darsi.

TRE MITEMI

È chiaro che intendo coltivare rapidamente – non accademicamente - i tre mitemi che per me appartengono alla struttura mitica (di Procida) in piena fase di ri-costruzione: sesso, carnummole e janare.

Innanzitutto il sesso, le carnummole e le janare costituiscono la trimurti di un’unica epopea dionisiaca. Frammenti di un altro discorso amoroso. Eppure sono componenti periferiche, se non del tutto ignorate, almeno per ora. Non credo che faranno capolino nei programmi condensati nell’acronimo PCdC che è la sigla di un nuovo partito che starà fisso nella mente non per poco: Procida Capitale della Cultura.

 

procida blog1Ecco svelato l’arcano.

Mi auguro che Procida non resti in auge… solo fino all’esaurimento delle scorte di cliché e déjà vu che già armano, al pari dei proiettili di novità arrembante, i cannoni di quanti si sono messi in fila per iscriversi appunto alla griffe modaiola.

Nell’elenco dei contenuti del PCdC ci saranno molte figure retoriche e figure popolari: bastimenti, marinai, pescatori e pescherecci; carciofi, parule, limoni, architetture e colori; Vivaro, processioni, cognomi, misteri, cappucci, carcerati, soprannomi, Turchini, lingue, Postini, Grazielle, confraternite, barabareschi, ‘nciuci, vefi, eccetera; con gli epigoni e gli imitatori dei capolavori e qualche film bellissimo.

E allora? Mi sta bene. Ma a modo mio.

Tant’è che vi propongo una visione subito alternativa grazie a un’opera del mio amico Antonio Cigliano «I Turchini e la Processione del Venerdì Santo Procida» (acrilico su telaio telato – 2019) che suggerisce lo spiazzamento che mi persuade. Ispiratissimo.

Okay. E invoco le donne di cultura che conoscono – più degli uomini – la democraticità della cultura stessa. Non penserebbero mai di bollare, artificialmente, definendole «improprie», le tre parole chiave che vi propongo per indurvi in lettura. Che c’è, perché mai si dovrebbe arrossire?

Procida è un’icona non glitterata della riproducibilità - mai identica - dell’opera d’arte umana, ovvero della fertilità almeno da quando è entrata nell’immaginario per le gesta delle sue piratesse e janare e ribelli, e per l’efficacia erotizzante del suo cibo terra-marinaro.

Conserva da centinaia di anni il record di densità di popolazione tra le nostre isole, non per caso, eppure (o forse proprio per questo?) qui la maggioranza è quella dei maschi, in controtendenza al rapporto classico tra i generi…

Vabbè. Ha un’aura tutta sua.

E poi sono arrivati – piuttosto dopo - i colpi di romantica grazia (e Graziella) con Lamartine… e le sue descrizioni affettuose.

E dopo? C’è stato l’exploit lucido post-freudiano di Elsa Morante, che ha introdotto nientemeno la bisessualità (Wilhelm, il padre del protagonista Arturo, ama un carcerato: lo ricordate?) nella vicenda de «L’isola di Arturo», confermando e allo stesso tempo frantumando la sindrome della colonia penale che mi è apparsa sempre come la diagnosi sanitaria dell’insularità. Perché? Per la presenza di una prigione, perché s’immedesima con la bi-locazione dell’esilio ed è il non-luogo del confino senza calendario.

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Quella della colonia è in ogni caso una condizione gianica, bifronte che sottintende spesso le vicende delle isole planetarie... avvolte pure dall’esotismo estremo come una pelle necessaria: le isole ospitano l’oltre e le utopie, i tesori, le fanciulle, i ragazzi, i rubini, la felicità, le maghe, i giganti, le scimmie, i selvaggi, gli artisti degenerati e chi più ne ha….

Le isole sono la quintessenza del piacere. Con i suoi effetti collaterali.

Date un occhio a quanto scriveva l’inglese e cipriota d’adozione Lawrence Durrell: «Ho trovato in un punto dei quaderni di  Gideon la descrizione delle malattie che la scienza medica non ha ancora classificato; fra esse c’era l’islomania, descritta come una rara e sconosciuta pena dell’animo. Ci sono uomini, spiegava in questo caso Gideon, che ritengono in qualche modo le isole irresistibili; la conoscenza che riescono a ottenere di qualcuna di esse, di questi piccoli mondi circondati dal mare, li colma di una indescrivibile ebbrezza…».

L’islomania è ricordata nel lussureggiante «Breviario mediterraneo» di Predrag Matvejević, l’autore croato più tradotto al mondo; e fa il paio con «l’ossessione» di Gavin Francis, autore del recentissimo e spettacolare «Island Dreams. Mapping an Obsession».

Okay, mi fermo…

Procida è un’isola autonarrante e mitopoietica e lo è quasi per definizione, denotata da una sorta di superfetazione letteraria anche grazie al suo più recente dei festival specializzati («Procida Racconta» organizzato da Nutrimenti). Ha un’autobiografia compiuta, che non ha costruito troppi fantasmi ma piuttosto, e particolarmente, la tradizione – che qui mi interessa - di una femminilità sofferta, dichiarata e conquistatrice, ammaliante, spiccata, molto orgogliosa e mai trascurata.

Sto parlando dell’isola meno ipocondriaca che io conosca, ruvida, vivace e ostricosa, e ne ho frequentate davvero molte di terre circondate dall’acqua, spendendo tonnellate di chiacchiere anche poetiche.

Forse la dimensione sociale con le sue promiscuità (codificate nel piccolo-insulare alla luce del sole, perché sembra impossibile nasconderle), a volte ha prodotto una schizofrenia strisciante nell’alternarsi di assenze/presenze tra la moltitudine di naviganti di lungo periodo e di emigranti.

Detto banalmente, lo scontro con la realtà, quando si torna dopo aver immagazzinato – durante la lontananza - una forte nostalgia di casa, può deflagrare… E vale anche se capovolgiamo aspettative e posizioni. Le sorprese, il riadattamento, lo straniamento sbucano quando si ferma il motore.

L’elaborazione in letteratura di questi – chiamiamoli – disorientamenti è molto interessante. Ma sorvoliamo.

Mi esalta altro, perché – proprio ora che ne è la capitale – la sua Cultura democratica sta al sesso come gli sparaglioni (non sono saraghi ‘e funnale!) stanno alla Posidonia e alle scogliere fuori dal porto. Attendo smentite. Non ci saranno.

Dunque per me è la capitale culturale senza tabù, perché fingendo ritrosia scocciata e sbuffando, ti sorride a labbra strette ammettendo tutte le proprie virtù contraddittorie dopo un attimo – forse più di uno - di suspense...

procida blog TRECCE INTRECCI E JANARE

Mi viene in soccorso qualche traccia-treccia di una bibliografia mai superflua, a partire da Giovanni Romeo, autore di «Magia e stregoneria a Procida», pubblicato nel 2015. I fatti riproposti sono ambientati nel 1737 quando accadde una oscura vicenda che vide protagoniste alcune giovani ospiti del Conservatorio delle orfane, fondato nella seconda metà del Seicento. Ci fu uno scandalo drammatico con, sullo sfondo, violenze, fumi satanici, violazioni e ipotesi di gravidanze isteriche e reali. Il prete avviò gli interrogatori e scoprì che c’erano stati rapporti sessuali con un sacerdote locale e con alcuni marinai. Mesi dopo l'arcivescovo di Napoli inviò un prelato di fiducia per approfondire l’inchiesta. Alcune donne furono affidate alle cure spirituali di confessori esperti e ancora interrogate dal Sant’Uffizio diocesano: emersero dettagli sulle infanzie durissime e sfortunate di due in particolare, vittime di incesti e abusi molto prima di rifugiarsi al Conservatorio. Retroscena che spiegavano la loro condotta disobbediente e la ribellione che avrebbe condizionato le altre, con alle spalle storie familiari e personali abbastanza simili. Le due donne, poi ritrattarono…

Nel contesto di torbida povertà e indiavolata mestizia emerge la forza di quelle giovani, preludio all’irruenza parallela che l’indimenticato capitano, marinaio e poeta Pasquale Scotto di Carlo, applicava come codice identificativo alle femmine dei suoi sogni, le janare.

Streghe senza confini e con qualche accento d’originalità.

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«Janara», è proprio intitolato il suo libro del 1997, che sforna un alter ego al cuore, un ragazzone che è al suo primo imbarco su una nave mercantile, e incontra un vecchio lupo di mare, un compaesano ormai lontano dalla sua isola per sempre. Il rendez-vous gli fa svelare un segreto: «Il marinaio aveva sposato una donna bellissima e insieme avevano fatto solenne giuramento di eterna fedeltà. Gli era capitato, però, in un porto, di imbattersi in una fascinosa ragazza che aveva accettato l'invito di passare una serata a bordo della sua nave. Ma, proprio quando si preannunciava una travolgente notte d'amore, spuntò come d'incanto nella cabina una gatta che si intromise in mille modi tra loro…».

Sogni, sogni e poi sogni. E corna spezzate sul nascere.

Il binomio gatta-janara (o con altri animali) è un solido topos che si rinnova anche in queste favole sparse qua è là non solo in Campania. Basta fare un salto in Sardegna.

E al nostro Pasquale piaceva davvero riscriverle. Quando nel 1996 fu pubblicata la guida di Procida nella fortunata collana delle «Sirenette», lasciò il segno con un raccontino, «Una leggenda procidana: la vendetta di Adina, janara innamorata», che certifica la soave ambiguità della fatale e sfuggente entità muliebre, con connotazioni aggiunte da piratessa in un contesto storico ben definito.

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Vi propongo ampi stralci di questa fiaba molto istruttiva.

«Abitava alla marina di Corricella una meravigliosa ragazza di nome Adina. Aveva sedici anni e viveva una fantastica storia d'amore con un giovane pescatore della zona. Menico, questo il nome del ragazzo, fu sorpreso, al largo mentre pescava, dai barbareschi che si appressavano alla costa dell'isola per depredarla. […] fu preso e incatenato al remo d'una galea. […] Adina si mise alla vana ricerca del suo amante e si fermò soltanto quando, al mattino di due giorni dopo, fu ritrovato in mare il corpo straziato di Menico che era stato ucciso dagli aguzzini per essersi ribellato alla deportazione. La bella, inconsolabile Adina, urlando e minacciando, giurò solennemente che avrebbe dato al capo di quei manigoldi una tremenda lezione.

[…] L'anno dopo, era il maggio del 1564, Torghut (o, meglio, Dragut; o Turgut Reis, ndr) ammiraglio in capo della flotta barbaresca, ritornò con le sue galee e dopo aver gettato le ancore davanti alla marina di Corricella, inviò i suoi messaggeri, chiedendo un esoso riscatto in oro e argento per desistere dall'assedio. […] Quella volta però una scialuppa andava incontro ai messaggeri. A bordo, Adina, vestita sol d'un trasparente velo azzurro, vogava in piedi, incrociando i lunghi giglioni e la flessuosità del suo giovane corpo, nella danza che i remi imponevano, evidenziava ancor più la sua affascinante figura. Chiese ai messi saraceni di poter parlamentare col loro pascià e questi, abbagliati dalla bella sirena, la scortarono fino alla galea ammiraglia. Torghut si sporse dalla tolda e rimase tanto ammaliato da quella seducente bellezza che le concesse di ascoltarla. Ella allora montò sul baglio e mostrò sette ceste colme d'oro che aveva sul pagliuolo della sua lancia, dichiarando a voce alta: “risparmia questa gente, gran pascià, ed io sarò tua schiava e quest’oro arricchirà i tuoi forzieri”.

procida blog1L'ammiraglio non esitò un solo istante e diede ordine che la bella fosse imbarcata insieme all'oro, risparmiando l'isola dall'assedio. La flotta salpò, perciò, per altri lidi.

Dopo alcuni giorni di navigazione, Adina, che divideva la sua cabina con altre schiave, venne prelevata e condotta nell'alloggio del pascià. Distesa sul tappeto di cashmere, pareva propensa a soggiacere alle voglie del suo signore. In gran pascià, ardente di passione le si accostò per abbracciarla ma provò invece la più cocente delusione della sua vita perché la bella fanciulla era scomparsa d'incanto e al suo posto c'era una maestosa gatta nera che si opponeva al gesto galante, graffiando disperatamente. Torghut fu sorretto dai suoi ufficiali che erano accorsi ai richiami e ascoltarono increduli l'accaduto. La sorpresa fu ancora più grande quando, verificato il contenuto del forziere, tutto l'oro in esso conservato era diventato carbone. Come se tutto ciò non bastasse per l'intera traversata una violenta tempesta provocò ingenti danni alla flotta saracena.

Il pascià, intimorito da questo sortilegio non offese mai più le sponde procidane anche perché l'anno successivo, correva il 1665, cadde colpito da una palla di bombarda durante l'assedio di Malta».

Vendetta tremendissima in una cornice d’erotica purezza.

Beh, il mitico (lui, sì) storico Michele Parascandolo diceva (1893) che «del resto è risaputo che le Procidane un giorno furono dette le Andaluse d’Italia, e qui venivano viaggiatori e pittori per ammirarne o ritrarne la bellezza». E cita, più in là, un tale Marcello Scotti: «Quante nostre donne sono andate a marito […] hanno fatto trionfare di letizia i loro sposi. […] Sono donne forti […] Iddio a larga mano ha donato loro ingegno, intelletto ed accortezza».

Non ho proprio dubbi, sono entusiasta di queste Procidane, capaci di magie.

CARNE E CARNUMMOLE D’AMORE

Queste specialità della casa (procidana), me le confermò qualche anno fa un caro amico, Salvatore «L’Approdo» Costagliola, capitano, discendente da una famiglia di piccoli armatori, e molto di più: buongustaio, ristoratore, politico, studioso-ricercatore della Storia, in particolare del Sud e procidana, e autore di centinaia di racconti.

C’incontrammo mentre ero a caccia di novità succulente per il mio «La cucina nel regno di Nettuno» (2006) e, ovviamente, tirammo fuori dal cilindro roba buona da mangiare… le carnummole!

Ricordo che con il termine carnummola si indica il limone di mare o uovo di mare o ascidia rustica. L’origine della parola? Viene proprio dalla carne, in latino, con tutte le sfumature di significato, dal rosa fino all’hot purpureo, è ovvio.

Ne va matto anche il grande chef don Alfonso Iaccarino, che me lo disse – ed è già trascorso un bel po’ - quando coordinai un convegno enogastronomico al Maschio Angioino a Napoli, confermandomi che per i veri intenditori – ed è ormai una citazione diffusa - «la carnummola è come la laurea del frutto di mare».

Scientificamente si tratta del Microcosmus sulcatus; e non dappertutto ne è ammessa la pesca (un divieto che rende il frutto ancora più ricercato!), ma sta nella pancia verace del Mediterraneo identitario da tempi remoti, lungo le fasce costiere, dalla Provenza alla Puglia, dalla Sardegna alla Campania seguendo proprio le rotte delle janare!

procida blogRestando vicini, dalle parti di Vivara, ad esempio, le carnummole si possono trovare abbarbicate come tartufi alle falesie (sommerse) scoperte dai Micenei per farci un porto dal quale salparono per mettere piede a Ischia.

«Le carnummole si possono mangiare sul posto dove vengono prese con una premuta di limone», come le cozze, precisava Salvatore Costagliola. E aggiungeva solennemente: «le donne di Procida le fanno mangiare ai loro compagni perché la presenza di acido fenico rende questo “frutto” un potentissimo afrodisiaco».

Eh, eh. Rieccoci con chi ha veramente il potere, e non solo della seduzione!

Il cerchio, anzi il trittico mitico si chiude.

A Procida c’era pure chi mescolava le carnummole con l’erba corallina, «l’erbe re’vierme», altro ingrediente mistico (in tutti i sensi) dell’alimentazione locale. E so dove trovarla, c’è ancora, miracolosamente.

Intanto vi recupero una ricetta base: la spaghettata con le carnummole. Semplice: si possono fare macerare per due giorni nel frigo condite con aglio, prezzemolo, menta, peperoncino, olio e sale. Il tutto deve essere pestato, possibilmente nel murtieddu, il mortaio. Poi, a freddo, si mescola con gli spaghetti.

Mmhh.

Contenti?

Ma non è finita. Sapete come si nominano a Procida le carnummole giovani, non ancora sviluppate del tutto? Viulelle… E sapete che la carnummola è molto apprezzata dalla gente rivierasca nel Sud della Francia, dove viene chiamata Violet e fa parte della Bouillabaisse, la zuppa di pesce della zona? Da qui si potrebbe dipanare un itinerario incredibile che ci porta da Marina Grande o dalla Chiaiolella fino a Ischia Ponte e poi di nuovo nelle atmosfere provenzali passando per i Maronti, la spiaggia che le mutevolissime janare amavano perché densa di grotte, rifugi, nascondigli scavati nel tufo morbido.

Ma ve lo svelerò un’altra volta.

Invece resto nell’ambito letterario per proporvi una conclusione.

Conoscete il «Pentamerone»,  il capolavoro barocco di Giovan Battista Basile ovvero «Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille de Gian Alessio Abbattutis»? Spero proprio di sì.

La decima storia della Prima Giornata si intitola «La vecchia scortecata».

Di che novella si tratta? Una sinossi pseudo-tradotta è questa: «Il re di Roccaforte s’invaghisce, al suono del parlare, di una vecchia non veduta, e, ingannato dalla mostra di un dito delicato, la riceve nel suo letto; ma, scoperto poi l’inganno, la fa gettare da una finestra. Restando colei sospesa a un albero, è fatata da sette fate, diventa una bellissima giovane e il re se la prende per moglie. La sorella della vecchia, invidiosa della fortuna di lei, per farsi anch’essa bella, si fa scorticare e muore».

Qui fa la sua prima apparizione – in una fonte certa – la carnummola.

Nella fase dell’innamoramento del re di Roccaforte, ecco le sue parole mielose: «Deh, cuore mio bello, se hai mostrato pel pertugio la coda, sporgi ora codesto muso, e facciamo una gelatina di piaceri! Se hai mostrato il cannolicchio, o mare di bellezza, mostrami anche il carnume; scoprimi cotesti occhi di falcone pellegrino e lasciali pascere di questo cuore».

La sinuosità del carnume-carnummola s’accoppia con la mutazione, l’ennesima, della donna stupefacente, tra bisticci irriverenti e giochi verbali. Ed è qui dichiarata in tutta la sua favolosa voluttà.

«La vecchia scortecata» è stata rilanciata con grande successo come una performance spettacolare (cercatela assolutamente in rete) da un artista globale qual è Peppe Barra. A lui, che ha dimostrato di essere molto affezionato a Ischia (da ricordare, tra l’altro, la sua partecipazione al Festival di Filosofia organizzato da Raffaele Mirelli), mi lega la condivisione di una soirée meravigliosa (agosto 2012), che ho condotto  nella cattedrale dell’Assunta al Castello Aragonese. Fu nell’ambito della rassegna culturale «inInsula» ideata e diretta dal giovane Francesco Esposito.

Quanto mi sono divertito!

1 con Peppe Barra al Castello Aragonese nel 2012

Beh, come sanno tutti, grazie alla madre Concetta Grasso Barra – una istituzione assoluta! -  Peppe ha un rapporto viscerale con Procida. Concetta era nata nel 1922 da un matrimonio piuttosto infelice, tra una donna procidana e un siciliano che faceva l’agente di custodia del carcere…

E che volete di più?

 

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L’immagine di Dragut è utilizzata sul web da molteplici siti che non citano la fonte

Per la foto degli spaghetti con le carnummole ringrazio per la concessione l’amico Luciano Pignataro (www.lucianopignataro.it)

La foto con Peppe Barra è di Antonello De Rosa© 2013

Alcune foto di Procida sono di Rosanna Magno© per Discover Italia 2020

Copyright video, foto e testi © 2020

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